E rieccoci con una lista di film da vedere che, benché possano sembrare tristi e pesanti a primo acchito per i temi trattati, in realtà nascondono tutti un messaggio positivo e di speranza sulla natura umana.
Parlano spesso di redenzione – nel senso meno religioso del termine – e raccontano episodi in cui il protagonista si ritrova a riflettere profondamente sulle azioni compiute fino a quel momento e cerca di rimediarvi, a seguito di incontri particolari con persone o a fatti sconvolgenti.
I temi sono svariati, vanno da scenari di guerra a momenti di vita quotidiana, e per la maggioranza sono tratti da storie vere. Il loro bello è che proveniendo dalla realtà personalissima vissuta dagli autori, con metafore più o meno fantascientifiche ci comunicano denunce alla società, ritratti di mondi paralleli in cui alcune tendenze umane portate all’eccesso sfociano in modi che, visti cosí reali, possono farci ragionare e scegliere di vivere sulla via buddista, quella di mezzo.
Le guerre che viviamo da lontano hanno un impatto pesantissimo nella vita del singolo individuo che le vive sulla propria pelle. Non c’è distinzione geografica, religiosa, razziale, classista: le scelte individuali toccano tutti. Non c’è cosa più dimostrata di quello che in fisica, nella teoria del caos, viene definito “effetto farfalla”. Si ritiene che piccole variazioni nelle condizioni iniziali producano grandi variazioni nel comportamento a lungo termine del sistema, da cui il detto (cinematografico) secondo cui il minimo battito d’ali di una farfalla sia in grado di provocare un uragano dall’altra parte del mondo. Il messaggio è traslabile a quello che stiamo imparando in questi mesi: oggi dobbiamo stare a casa perché un virus si sta diffondendo a macchia d’olio e, anche se non lo sappiamo, potremmo essere portatori sani e mettere a rischio altri individui. Perché non possiamo applicare questa forma di altruismo nel nostro quotidiano? Smettere di pensare solo a noi stessi non è difficile, anche perché in realtà fare il nostro bene è anche farlo alla comunità; se iniziamo a prenderci cura di noi stessi e degli altri in modo globale, scegliendo alimenti sani, riciclando materiali, utilizzando prodotti senza additivi chimici, che oltre a beneficiare noi stessi aiutano a ridurre l’inquinamento…sono solo alcuni esempi. Si tratta di una presa di coscienza che siamo convinti di poter raggiungere, mattone dopo mattone, con ogni singolo essere umano con cui condividiamo questo pianeta.
Vi lasciamo dunque 15 capolavori qui di seguito che oltre a farci passare il tempo, strapparci qualche lacrima e qualche risata, ci toccano nel profondo su tanti temi che sarebbe meraviglioso poter cambiare, un giorno.
Buona visione!
(Cliccando sulle immagini potrete accedere direttamente al trailer!)
Un moto ciclico e perpetuo che si rinnova attraverso una sontuosa iconografia e una spiritualità corrotta, si potrebbe sintetizzare così il nuovo capitolo cinematografico di un regista poliedrico e imprevedibile quale è Kim Ki-Duk. Un regista (e attore in questo caso) che ama esplorare a fondo le necrosi dell’animo umano per santificarle attraverso un selvaggio uso dell’immagine e della narrazione. I suoi film sono fondamentalmente storie in dissolvenza, parabole di lento decadimento attraverso un raffinato processo di involuzione dell’uomo in cui il regista rimane algido osservatore. Primavera, uscito nella sale nel 2003 e primo film del regista coreano ad uscire anche in Italia, segna una netta cesura nella poetica di Kim Ki-Duk, configurandosi come il trapasso dalle allucinate e morbose atmosfere delle sue opere d’esordio (Coccodrillo, Bad Guy, L’Isola) verso una più patinata e canonica visione del mondo, un ascetismo tuttavia mai di maniera, in cui la disgregazione del protagonista è sempre presente, ma non è più violentemente al centro della scena.
La storia è quella di un anziano Monaco e del suo giovanissimo discepolo che vivono in uno sperduto eremo buddista incastonato tra le montagne della Corea del Sud, un ligneo Tempio sospeso tra cielo e terra, galleggiante sulla superficie di un lago incontaminato. Intorno a questa sorta di teatro mobile ruota tutta la narrazione dell’opera che non si allontana mai da questa meravigliosa locazione. Le quattro stagioni segnano altrettanti punti focali a cui la vicenda dei due uomini si avviluppa. Primavera si apre con il discepolo bambino che viene ripreso dal Maestro per aver torturato tre animali, un pesce, una rana ed un serpente, legando loro una cordicella con un sasso e provando divertimento dinanzi alle loro sofferenze. È fortissima la simbologia legata al mondo animale che caratterizza tutta l’opera (ogni stagione ospita un diverso animale che scorrazza libero per l’eremo: un cane, un gallo, un gatto, un serpente). Estate segna l’arrivo della fisicità con l’attrazione sessuale e l’innamoramento tra il discepolo adolescente e una giovane ragazza giunta all’Eremo per essere curata da un misterioso malessere. Il sesso tra i due ragazzi è una sorta di grimaldello che straccia la cortina di ascetismo e segna il distacco tra Maestro e Discepolo. Con la partenza del ragazzo si chiude infatti l’Estate. In autunno l’uomo farà ritorno all’Eremo dall’ormai anziano Maestro dopo aver ucciso la moglie in un impeto di ira per un suo tradimento. Il Maestro obbligherà l’uomo ad un rito calligrafico di penitenza incidendo nelle assi dell’Eremo alcuni Mantra di Penitenza. La stagione si chiude con l’assassino che viene arrestato dalla polizia e condotto via, mentre il Maestro purga le sue lacune di insegnante con il Suicidio in cui purifica il suo corpo con il fuoco. L’inverno segna il ritorno del discepolo all’Eremo dopo aver scontato le sue colpe. L’uomo decide di consacrare la sua vita all’ascetismo e al distacco dalle cose terrene. Ma la ruota infinita della Vita gli sottopone un giovane adepto a cui dovrà dedicare i suoi insegnamenti in un moto perpetuo e ciclico che si rinnova: un gigantesco serpente che si morde la coda, un nastro di Moebius che vibra all’infinito sopra la fragile finitezza degli uomini.
Cambogia, 1975, la città di Phnom Penh brilla di vita e colori e viene immortalata da un fotografo, ma tutto è destinato cambiare lontano da occhi occidentali. Infatti il fotografo se ne va come gli americani e nel Paese viene instaurato il regime degli Khmer Rossi, che attua un programma genocida di purificazione della Cambogia. Luon Ung è una bambina di cinque anni che assiste alle numerose e sadiche ingiustizie praticate dai soldati sulla sua famiglia, mentre cerca di sopravvivere tra gli stenti e la fame in una sorta di campo di concentramento rurale, dove i detenuti coltivano il cibo per i militari. Finirà per diventare anche una bambina soldato quando sarà trasferita in un ulteriore campo di addestramento.
First They Killed My Father è l’adattamento dell’omonimo libro, che racconta le memorie della scrittrice e attivista cambogiana Loung Ung, sopravvissuta durante il regime mortale dei Khmer Rossi dal 1975 al 1978. La storia è narrata attraverso i suoi occhi, a partire dall’età di cinque anni, quando i Khmer Rossi salirono al potere, fino ai nove anni. Il film descrive lo spirito indomito e la devozione di Loung e della sua famiglia, che lottano senza sosta per restare uniti durante quegli anni terribili.
Film drammatico del 2008 diretto da Gabriele Muccino. Il film narra le vicende di Tim Thomas (Will Smith), giovane ingegnere aerospaziale. Un giorno, a causa di una banale distrazione, Tim provoca un tragico incidente d’auto a seguito del quale perdono la vita 7 innocenti, tra cui sua moglie. L’evento rimane indelebile nella mente dell’uomo che, divorato dal senso di colpa, decide di redimersi salvando la vita di sette persone meritevoli e scelte con attenzione. Tim inizia quindi la ricerca delle sette anime da salvare.
La prima persona a essere scelta è suo fratello Ben, a cui decide di salvare la vita donando un polmone, qualche mese dopo è il turno di Holly, assistente sociale, cui Tim decide di donare una parte del fegato, dopo di lei sarà il turno di George, allenatore di hockey, di un giovane ragazzo di nome Nicholas e di Connie, una donna maltrattata dal fidanzato a cui Tim decide di regalare la sua casa al mare permettendole così di trasferirsi insieme ai figli e rifarsi una vita lontano dal compagno. Tra tutte, però, sarà l’ultima anima la più difficile da aiutare, la bella Emily Posa (Rosario Dawson). Tim, infatti, si affezionerà tantissimo alla settima prescelta e questo sentimento inaspettato lo porterà inevitabilmente a porsi una terribile domanda: imparare nuovamente a vivere o lasciar vivere?
Tratto da una storia vera accaduta negli anni Ottanta e raccontata nel libro di Gad Shimron, “Mossad Exodus”. Protagonista del thriller, diretto dal regista israeliano Gideon Raff, è Chris Evans, che, al netto dei suoi impegni sociali, politici e nei cinecomic, è sempre alla ricerca di nuove sfide da affrontare e storie interessanti da raccontare. Con lui recitano anche Ben Kingsley, Haley Bennet, Greg Kinnear, Michael Kenneth Williams e Alessandro Nivola. Così quest’ultimo ha raccontato la storia:
“Gli israeliani inviarono cinque agenti del Mossad in Sudan perché allestissero un finto hotel sulla costa. Loro andavano nei campi profughi, caricavano gli ebrei etiopi sui camion e li portavano sulla costa per farli salire sulle navi dei Navy Seal israeliani e rimandarli a Gerusalemme. In questo modo fecero uscire dal Sudan 30.000 profughi in quattro anni”.
La missione segreta nel film è capitanata da Evans, che interpreta il carismatico Ari Levinson, mentre Michael Kenneth Williams è un coraggioso cittadino sudanese, Kabede Bimro. Sono loro a gestire l’hotel sul Mar Rosso come copertura, per le attività notturne di cui sopra.
La vicenda è ambientata nel 1999 in Sierra Leone, dove il mercenario Danny Archer (Leonardo Di Caprio) ha organizzato un commercio illegale di diamanti per conto del colonnello Coetzee (Arnold Vosloo), incurante della Guerra civile che affligge il paese.
Sullo scenario della devastazione e della violenza portata dal conflitto, gli spietati guerriglieri del Fronte Unito Rivoluzionario attaccano i villaggi e deportano gli uomini nei campi diamantiferi.
Tra loro c’è il pescatore Solomon Vandy (Djimon Housou) che, dopo essere stato separato dalla sua famiglia, è costretto ai lavori forzati nella miniera. Mentre il governo sta per attaccare il campo, Solomon trova un prezioso diamante rosa e riesce a nasconderlo. Intanto, gli illeciti di Danny sono stati scoperti e l’uomo è rinchiuso nella prigione di Freetown. Qui, il contrabbandiere viene a conoscenza del ritrovamento del preziosissimo diamante rosa e contatta Solomon, anch’egli rinchiuso in carcere, promettendogli di ritrovare la sua famiglia in cambio della straordinaria pietra.
Grazie alla complicità della reporter Maddy Bowen (Jennifer Connelly), i due attraversano il paese completamente distrutto dalla guerra civile. Ognuno di loro ha uno scopo ben preciso. Solomon vuole ricongiungersi alla sua famiglia e liberare il figlio dai ribelli che lo hanno costretto a diventare un bambino soldato. Mandy, appassionata e idealista, vuole documentare i traffici illeciti delle multinazionali, che approfittano della rovinosa situazione dello stato per contrabbandare diamanti. Danny, invece, vuole continuare il suo commercio ma ignora che, di lì a poco, diventerà l’unico mezzo per permettere ai suoi compagni di viaggio di riuscire nella loro impresa.
Il cacciatore di aquiloni è un film del 2007 diretto da Marc Forster, tratto dall’omonimo romanzo di Khaled Hosseini.
Amir e Hassan vivono a Kabul e, nonostante le differenze sociali, sono buoni amici. I due bambini si divertono a passare il tempo giocando con gli aquiloni, dimenticando per alcune ore il degrado che li circonda.
La loro spensieratezza, tuttavia, è turbata dall’accidentale incontro con una cricca di ragazzi più grandi, che prendono di mira Amir. Per difendere l’amico, Hassan colpisce il capo della gang con la sua fionda e, in pochi secondi, i ragazzi lo raggiungono e lo puniscono in modo inumano.
Scioccato e impotente di fronte a tanta brutalità, Amir reagisce in modo singolare, cercando di evitare qualsiasi futuro incontro con Hassan. Per farlo allontanare dalla sua abitazione, Amir inventa addirittura che l’amico sia un ladro, pregando suo padre di cacciarlo.
Trascorrono diversi anni senza che i due si incontrino nuovamente.
Nel 1979 l’Unione sovietica invade l’Afghanistan e Amir e suo padre fuggono prima in Pakistan e poi in California. Nonostante la realtà americana sia ben diversa da quella d’origine, Amir si ambienta alla perfezione, intraprendendo un proficuo percorso di studi e costruendo la propria famiglia.
Nel 2000, tuttavia, la quotidianità di Amir è scossa dalla richiesta di Rahim Khan, amico di vecchia data del defunto padre, che vorrebbe incontrarlo in Pakistan.
Sconvolto dalla rivelazione di Rahim, Amir decide di tornare in incognito in Afghanistan, dove dovrà affrontare il passato…
Okja è un film drammatico del 2017 diretto dal coreano Bong Joon Ho, con Tilda Swinton, Jake Gyllenhaal e Seo Hyun An.
Il nuovo capo della Mirando Corporation, Lucy Mirando (Tilda Swinton), annuncia al mondo che è in possesso di un nuovo tipo di maiale, enorme e dalle carni prelibate. Dopo 10 anni di allevamento in diverse parti del mondo viene scelto il maiale migliore, Okja, cresciuta in Corea del Sud con Mija (Ahn Seo-hyun) e suo nonno, e nonostante la ragazza non voglia assolutamente separarsene, Okja viene portata via dal dottor Wilcox (Jake Gyllenhaal) per essere presentata al mondo dalla sede della Mirando a New York.
Mija non si dà per vinta e si reca a Seul, dove il maiale sta per essere spedito oltremare, e viene in contatto con il FLA (Fronte Liberazione Animali), che accusa la Mirando di maltrattamento sugli animali. Il loro leader Jay (Paul Dano) vuole convincere la ragazza a nascondere dietro l’orecchio di Okja un registratore che possa riprendere i maltrattamenti della Mirando e avere le prove da esibire al mondo interno; Mija vorrebbe solo tornare a casa con la sua amica, ma K (Steven Yeun), che traduce la loro conversazione, mente a Jay dicendo che Mija è d’accordo sul piano. Okja diventerà così un trofeo che la Mirando adopera per incantare il mondo, subirà violenze e maltrattamenti. Mija tenterà disperatamente di salvarla, aiutata infine anche da Jay, che si renderà conto di aver usato anche lui il maiale, non per proteggerlo, ma per raggiungere i suoi scopi.
Jake Sully, è un ex marine costretto a vivere su una sedia a rotelle. Nonostante la disabilità fisica, nel cuore Jake è rimasto un combattente. Viene arruolato e, dopo un viaggio di alcuni anni luce, raggiunge l’avamposto degli umani su Pandora, dove un consorzio di aziende è impegnato nell’estrazione di un raro minerale, indispensabile per risolvere la crisi energetica sulla Terra. Poiché l’atmosfera di Pandora è tossica, è stato sviluppato il Programma Avatar, che permette di collegare la coscienza umana a un avatar, cioè un corpo biologico guidato a distanza, in grado di sopravvivere all’atmosfera letale del pianeta. Questi avatar sono ibridi geneticamente modificati in cui il DNA umano è stato mescolato con quello della popolazione indigena di Pandora… i Na’vi. Rinato nel corpo di un avatar, Jake può camminare di nuovo e dare inizio alla missione che gli è stata assegnata: infiltrarsi nel mondo dei Na’vi, che sono diventati un serio ostacolo per le attività estrattive del prezioso minerale. Ma una bellissima donna Na’vi, Neytiri, gli salva la vita e questo cambia tutto. Jake viene accolto nel suo Clan e impara ad essere uno di loro, dopo avere superato molte prove e vicissitudini. Man mano che il rapporto tra Jake e la riluttante insegnante Neytiri si approfondisce, l’uomo impara a rispettare i Na’vi e il mondo in cui vivono e, alla fine, si schiera dalla loro parte. Presto Jake dovrà affrontare la prova finale, guidando i Na’vi in una battaglia epica che deciderà il destino di un mondo intero.
Tarantino continua il suo percorso attraverso le contaminazioni cinematografiche che sono i pilastri della sua genesi artistica. In questo caso va a pescare negli spaghetti western di Corbucci ed estrae dal cilindro uno dei personaggi storici di quel periodo e di quel genere: Django. Tarantino, come suo solito, incrocia diabolicamente la figura del pistolero redento con la lotta di liberazione degli schiavi negri nel sud razzista di fine ottocento. Il dottor King Schultz, un finto dentista in realtà cacciatore di taglie, libera lo schiavo Django e gli insegna il mestiere di pistolero. Dopo essersi avvalso dei preziosi servizi di Django il dottore lo aiuterà nel ritrovare la sua Broomhilda, come un novello Sigfrido nella saga dei Nibelunghi. Inutile dire che il film resta godibile dal primo all’ultimo fotogramma, con trovate deliziose ed omaggi più o meno velati al cinema italiano degli anni ’60 (il più clamoroso è forse il cameo di Franco Nero). Si aggiunga che l’opera, oltre che dall’estro del regista, viene nobilitata da un Christoph Waltz titanico. Decine le scene da ricordare, dalla sobria uccisione del finto sceriffo Bill Sharp con una altrettanto sobria spiegazione pubblica di Schultz, davanti a cento canne spianate verso di lui, di come in realtà lo sceriffo fosse un ladro di bestiame sotto mentite spoglie, il tutto pronunciato con deliziosa ampollosità e verve ironica. Oppure la scena clou quando lo spietato negriero Calvin Candie si accorge della vera natura della visita di Schultz e Django nella sua magione (per liberare la donna di Django) e inscena un drammatico confronto nella sala da pranzo tra porcellane finissime e posate argentate con i due gentiluomini. Come in ogni film di Tarantino l’oceano di citazioni, di omaggi, di furti cinefili è talmente vasto che non se ne scorgono i confini, però per dirla con Leopardi: “Il naufragar m’è dolce in questo mare”.
Un disordine prestabilito dove l’occhio vaga compiaciuto mentre l’arte raffinatissima di Nolan spinge ai massimi livelli narrazione e prospettiva iconografica. Può essere questo uno dei possibili parametri di lettura di un’opera concettualmente complessa, superbamente messa in scena con tecniche surrealiste per la ricostruzione dei sogni e del loro instabile palcoscenico. Nolan tenta l’azzardo di trasporre su pellicola ciò che risiede nella mente umana costruendoci intorno un accattivante reticolo narrativo. La storia è incentrata sulla figura di Cobb, la cui abilità di inserirsi nei sogni delle persone e prelevare informazioni è richiesta in ogni angolo del globo. Cobb viene contattato da Saito, potente industriale giapponese, che gli commissiona l’operazione inversa: impiantare un’idea nella mente di un suo concorrente, in maniera tale da indurlo a disgregare l’azienda paterna. Inizierà una discesa à la Verne attraverso i livelli onirici dell’uomo, giù fino al profondo del subcosciente, per innestare il germoglio indelebile di un’idea. Allegorico, metaforico, surreale: gli aggettivi per un film come questo potrebbero sprecarsi. Nolan gioca con le regole non scritte di Philip K. Dick a destrutturare la Realtà privandola dei suoi costrutti. Durante la sua narrazione la sensazione di alienazione è palpabile, e il dubbio angosciante realtà-sogno divora ogni punto di riferimento.
Relegare La Città Incantata a mero film d’animazione destinato ad un pubblico di bambini è tremendamente riduttivo. Hayao Miyazaki ci consegna questo emozionante pegno del suo immenso talento dove riesce a far coesistere in perfetta sintonia piano reale e piano fantastico. In un’intervista il Maestro Nipponico ha affermato che quando lavora ad un film non gli serve una sceneggiatura, i suoi film si creano disegno dopo disegno, seguendo la direzione che prende la narrazione. Eppure questa splendida opera sembra un edificio così maestoso e complesso, e nello stesso tempo armonico e perfetto, che si fatica a credere che dietro di esso non vi sia una planimetria studiata con rigore.
Chihiro sta trasferendosi in una nuova città con i genitori. Durante il viaggio in auto suo papà decide di prendere una scorciatoia finendo in uno strano parco di divertimenti abbandonato. Esplorando quel luogo così desolato attira l’attenzione della famiglia un ristorante con florilegio di squisitezze esposte in assaggio, così mentre i due genitori si strafogano con il cibo, Chihiro esplora i dintorni, e al suo ritorno mamma e papà saranno stati trasformati in maiali. Chihiro si avventura tra gli spiriti di quella città fantasma, alla ricerca di una via di salvezza per i propri genitori, catturati dalla malìa di quei luoghi. Sarà un viaggio surreale attraverso spiriti squinternati, ombre sfuggenti e vapori stregati. Il suo viaggio inizierà nel Palazzo della strega Yubaba, dove riuscirà a trovare un lavoro aiutata da Haku, uno strano ragazzo al servizio della strega.
Alcune apparizioni rimangono memorabili, come le creature nel bagno turco che escono dalla caligine dell’acqua e si affollano intorno alla piccola protagonista. Oppure come Kamagi, l’uomo tentacolare che amministra il locale caldaie aiutato da tanti nerini di fuliggine che trasportano il carbone da gettare nelle enormi fauci infuocate della caldaia. Ogni singola inquadratura è abitata dalle creature più strane che mente umana possa concepire, e il Maestro le fa sfilare nella narrazione con una naturalezza disarmante, senza alcun tipo di artificio retorico, senza ombra di ridondanza semantica. Quest’opera è in sintesi il trionfo della Fantasia sulla Realtà, è la prova che la creatività assurge a vera e propria essenza ontologica del racconto. Un’opera in definitiva che ci fa riflettere su una quantità di tematiche, a seconda del nostro stato d’animo. Da vedere e rivedere.
Blow raffigura l’ascesa e la caduta di George Jung (Johnny Depp), il più grande trafficante di cocaina degli anni ’70 negli Stati Uniti. Proveniente da una famiglia di risorse limitate che lottano per sopravvivere affidandosi alla loro piccola impresa, Jung parte per la California per iniziare una nuova vita, ma finisce presto in prigione ancora prima di iniziare la carriera per la quale sarà tristemente noto. È proprio in prigione che conosce i suoi primi contatti con il business della cocaina. Un grande business che riesce a sfruttare al momento della sua liberazione dal carcere, diventando il collegamento principale nel commercio di cocaina tra il cartello colombiano della droga guidato da Pablo Escobar e il mercato degli Stati Uniti. Ma l’immensa ricchezza e il potere che guadagna non gli permettono di vedere i veri costi di ciò che ha intrapreso.
“Non basarti mai solo sui soldi, sembrano la realtà ma non lo sono.”
Un film per certi versi sorprendente questo di Tarantino, che si discosta dal filone metropolitano per cimentarsi con il genero bellico. Ma la guerra di Tarantino è scevra da ogni rigore storico o cronachistico, è una guerra onomatopeica, grottesca, per alcuni aspetti quasi stilizzata e stereotipata, da fumetto. Ma è proprio questo sottile e delizioso strumento narrativo che Tarantino mette in scena per confondere lo spettatore e catturarlo in una rete iconografica che non gli offre punti di riferimento. Una apparente banalizzazione del contesto storico che diviene palcoscenico di multiple contaminazioni, dove il tenente Raine appare come una sorta di Popeye ante litteram libero di imperversare e di infierire sardonicamente sugli odiati nazisti. I personaggi sono attori sputati fuori da una graphic novel, supereroi stropicciati prestati ad una guerra che non è la loro, uomini dotati di un coraggio fuori dal comune che consentono a chi assiste una compartecipazione via via sempre più viva e appassionata.
Aldo Raine è un tenente americano che raduna una squadra di veri duri: il loro compito sarà infiltrarsi nella Francia occupata e “uccidere quanti più nazisti possibile”. In seguito la sua squadra sarà chiamata a svolgere delicate missioni, non ultima l’attentato alla vita di Hitler. Per farlo Raine sceglierà un cinema parigino di proprietà di un’ebrea scampata al massacro della sua famiglia e pronta a vendicarsi per conto proprio. I due attentati, quello del commando americano e quello di Shosanna, si avvilupperanno in un crescendo rossiniano fino ad esplodere in una spirale di fuoco e morte nel finale del film.
Un Brad Pitt superomistico, surreale e sardonico interpreta questo sgozzanazisti da cartoon. Menzione specialissima per l’interpretazione di Cristoph Waltz nei panni del colonnello Hans Landa, una grande prova di talento che dà lustro all’intera opera. Inutile dunque cercare riferimenti storici o rispetto filologico per i generi, meglio godersi il gustoso valore artistico del film e lasciare fluire le immagini con la loro rutilante potenza. Nota positivissima da linguisti per questo film, in cui oltre che perfette le lingue in ogni sequenza, vengono curate le differenze di accenti regionali. Chapeau.
In una Terra alternativa gli umani coesistono con creature fantastiche, come orchi ed elfi, che sono gli unici a poter usare la magia. Questo fa di loro una classe privilegiata, una sorta di equivalente dell’1% come li definisce il regista David Ayer, mentre gli orchi sono i più umili nella scala sociale, fanno lavori faticosi e nessuno si cura di loro finché non si danno alla delinquenza. La polizia infatti li perseguita e in più di un caso ne ha tormentati di innocenti. Proprio questa tensione razziale ha dato il via al programma di “diversity” che crea il punto di partenza del film: un agente nero, Daryl, si ritrova come partner Nick, il primo poliziotto orco di Los Angeles.
Durante una ronda notturna di routine i due scoprono un potente artefatto, una bacchetta magica che si pensava fosse andata distrutta e di cui invece è in possesso di Tikka, una giovane elfa. La bacchetta è così potente da uccidere qualunque umano cerchi di usarla. È stata creata dall’antica strega elfica Leilah, che naturalmente ne vuole tornare in possesso, per mettere in atto progetti rivoluzionari.
Forte la denuncia alla società americana (ma non solo), non a caso affidato il ruolo principale a un attore di colore, perché ancora no, non abbiamo superato il razzismo bianco-nero, tra le varie cose.
“L’essenza dello spirito dell’uomo sta nelle nuove esperienze” urla Chris a Ron dalla cima di una cresta, è una frase di commiato e Chris sta esortando l’anziano amico ad uscire da una casa piena di solitudine per perdersi nel mondo, mettere in atto un cambiamento radicale nella sua vita. In queste parole di Chris c’è la chiave di lettura di questo film: il suo candore, il suo travolgente entusiasmo, la sua ingenua gioia nello scoprire il mondo è il fulcro narrativo intorno a cui Sean Penn costruisce una storia di libertà da ogni vincolo sociale, adattando il suo racconto all’omonimo romanzo di John Krakauer. Chris McCandless potrebbe essere uno dei tanti milioni di giovani americani che dopo una brillante carriera al college è atteso da una vita agiata e in perenne discesa. E invece il giovane devolve tutti i suoi averi in beneficenza, affitta un’auto e si mette in viaggio per il vasto continente americano. Un percorso iniziatico che gli farà assaporare l’essenza stessa del concetto di libertà, il nettare dell’emancipazione da ogni fardello con cui la società intendeva imbrigliarlo. Incontrerà uomini e donne con cui condividerà un pezzo del suo cammino, passando come una folgore nelle loro vite e lasciando un senso di purezza, di clandestino amore per il suo spensierato nomadismo. L’essenza del film è catturata dai versi di Lord Byron usati come epigrafe a inizio film: “C’è una gioia nei boschi inesplorati, C’è un’estasi sulla spiaggia solitaria, C’è vita dove nessuno arriva vicino al mare profondo, e c’è musica nel suo boato. Io non amo l’uomo di meno, ma la Natura di più.” Un film che ci scuote, facendoci intravedere cosa sarebbe potuto diventare ognuno di noi se avesse deciso di consegnarsi all’elemento selvaggio. Una libertà tristemente fatale per il corpo di Chris, ma non certo per la sua anima.
“Non smetterò mai di essere un insieme di pezzi incollati, in fondo ci sarà sempre qualcosa di rotto in me”, ha detto AM Homes nel suo romanzo autobiografico The Daughter of the Lover, in cui raccontava come sua madre biologica era irrotta nella sua vita quando lei aveva 31 anni. Anche Lion parla di pezzi incollati e pezzi rotti, un adattamento di A Long Way Home di Saroo Brierley, che l’australiano Garth Davis porta sul grande schermo.
Raccontata in ordine cronologico, Lion è la storia di Saroo, un ragazzo che si perde in India, in un contesto oscuro pieno di pericoli, dove i bambini che vivono per strada spariscono, nell’indifferenza della folla indaffarata a sopravvivere; Saroo ha “fortuna”, riesce a sopravvivere, a scampare dalle grinfie di tante brutte persone e finisce in un orfanotrofio dall’altra parte del paese. È lì che lo trovano i suoi genitori adottivi, una coppia australiana che ha deciso altruisticamente di adottare figli invece di averne di propri. Dopo non poche difficoltà da piccolo orfano, l’adattamento di Saroo al nuovo mondo è totale, e solo la presenza scomoda di suo fratello Mantosh, anch’egli adottato, mostra che ciò che unisce i pezzi incollati di questa famiglia perfetta è proprio questo, colla.
Dev Patel interpreta con calore il Saroo universitario che, quando entra in contatto con altri indiani, annusando la loro cucina e ritrovandosi nei loro lineamenti, improvvisamente ricorda ciò che in quegli anni non voleva vedere: le sue origini. È così che intraprende un viaggio tecnologico alla ricerca della madre e dei fratelli che ha perso, e per inciso, se stesso. Un viaggio su Google Earth che sembrerebbe uno scherzo se la storia non fosse ispirata a un caso reale. In ogni caso, non è in questo viaggio che sta la capacità emotiva di Lion, ma nel suo onesto approccio all’adozione, al sentimento dell’adottato e della persona che adotta – meravigliosa Nicole Kidman–, ai pezzi incollati, all’inevitabile vuoto del non sapere da dove veniamo e chi siamo.
È il momento di cambiare aria, segui la campagna ECO-CONSUMO e insieme contrasteremo i cambiamenti climatici!